Violenza, consenso e modelli culturali: Stati Uniti, Italia e Francia di fronte alla Convenzione di Istanbul

La discussione sul consenso sessuale e sulla violenza di genere si colloca oggi in un punto di tensione fra diritto, cultura e identità individuale. La Convenzione di Istanbul — trattato europeo del 2011 per prevenire e contrastare la violenza contro le donne — ha imposto a ogni Stato firmatario di rivedere il proprio impianto giuridico, orientandolo a porre il consenso al centro della definizione di violenza sessuale. Ma il modo in cui gli Stati hanno interpretato questa prescrizione varia enormemente e dipende dalla storia, dalla cultura e persino dalla sensibilità collettiva verso il corpo e il desiderio.

Tre modelli si distinguono nettamente: quello statunitense, rigidamente procedurale; quello italiano, segnato da un impianto moralistico e da una certa “infantilizzazione” simbolica della donna; e quello francese, più maturo e relazionale, che cerca di tutelare senza snaturare la seduzione e la complessità dell’intimità. Analizzare queste differenze permette di comprendere come, dietro l’apparente uniformità del concetto di “consenso”, esistano universi antropologici profondamente diversi — e come alcune scelte legislative possano risultare soffocanti non perché rivolte “agli uomini”, ma perché riducono la libertà e la complessità dell’individuo tout court.

1. La Convenzione di Istanbul: un obbligo chiaro, ma non un modello unico

Il testo della Convenzione di Istanbul chiede agli Stati tre cose:

  1. considerare reato ogni atto sessuale compiuto senza consenso libero e volontario;
  2. garantire protezione effettiva alle vittime;
  3. promuovere un cambiamento culturale attraverso educazione, prevenzione e formazione.

La Convenzione non impone però come debba essere valutato il consenso, né richiede che esso sia espresso verbalmente, né impone formule del tipo “solo sì è sì”. I Paesi, insomma, hanno ampia autonomia nella trasposizione del principio.

Ecco perché la distanza fra i modelli è enorme: la Convenzione non genera un paradigma unico, ma un campo semantico che ogni Stato interpreta secondo la propria cultura.

2. Il modello statunitense: consenso come procedura, rituale e autodifesa

Negli Stati Uniti — soprattutto nei campus universitari — il tema del consenso è diventato un dispositivo comportamentale vero e proprio. La sessualità in ambiente giovanile è immersa in una cultura di iper-giuridicizzazione, di paura reputazionale e di forte pressione normativa: il rischio di una denuncia formale o di un procedimento disciplinare interno all’università è percepito come altissimo.

Per questo il consenso americano assume una forma procedurale, quasi “rituale”. Non è un processo spontaneo, ma una serie di verifiche esplicite, spesso molto ravvicinate, che hanno lo scopo di proteggere soprattutto l’individuo da potenziali accuse. Nella pratica, l’interazione sessuale è scandita da un vero e proprio “check continuo” fatto di domande dirette:

  • “Va bene se ti bacio?”
  • “Ti senti a tuo agio?”
  • “Posso continuare?”
  • “È tutto ok?”
  • “Vuoi ancora andare avanti?”
  • “Ti va se faccio questo?”

Queste domande non rappresentano una scelta erotica: sono una forma di autoprotezione legale. L’obiettivo è ridurre il rischio di incomprensioni che potrebbero diventare una segnalazione formale al Title IX Office dell’università. Il risultato è che il sesso diventa un atto da “gestire”, non da vivere: un’esperienza trasformata in un protocollo, nata più dall’ansia che dal desiderio.

Il fenomeno è amplificato dalla presenza di app come We-Consent o LegalFling, che hanno tentato — senza vera diffusione — di proporre persino registrazioni video del consenso (“Io, X, acconsento a questo rapporto con Y”), a conferma del fatto che il clima culturale statunitense tende a trasformare la spontaneità in documento, la relazione in procedura, l’eros in autodifesa.

E nonostante la potenza simbolica del movimento #MeToo, il suo bilancio giudiziario è sorprendente:

👉 le condanne definitive sono pochissime, quasi nulle rispetto al volume delle accuse.

👉 molte vite e carriere sono state distrutte dal moralismo mediatico e dal sospetto sociale.

Il caso di Kevin Spacey, assolto in tutti i procedimenti giudiziari, resta emblematico:

condanne sociali e professionali enormi → condanne legali zero.

Questo modello non protegge meglio: protegge di più la reputazione dell’istituzione che l’esperienza erotica delle persone.

Produce un sesso ipercosciente, segmentato, controllato.

Un sesso che nasce dalla paura, non dal piacere.

3. L’Italia: un femminismo moralizzatore e l’infantilizzazione della donna

L’Italia ha recepito la Convenzione di Istanbul con lentezza e, come spesso accade, con una forte componente emotiva. L’approccio italiano è caratterizzato da un tratto culturale ben riconoscibile: la tendenza moralistica a leggere le relazioni uomo–donna come drammi identitari. Il discorso pubblico ruota spesso non attorno alla prevenzione, all’educazione o alla responsabilità individuale, ma attorno alla colpa, alla punizione e alla delegittimazione di una delle due identità — quella maschile — percepita come “categoria a rischio”.

In questo quadro, la donna italiana viene spesso rappresentata come soggetto vulnerabile da proteggere, figura simbolica più che agente autonomo. Questa narrazione — politica, giornalistica e giudiziaria — ha un effetto collaterale evidente: l’infantilizzazione della donna, percepita più come creatura da difendere che come individuo pienamente libero e responsabile del proprio desiderio.

La recente riforma italiana sul consenso (“senza consenso libero e attuale è sempre violenza sessuale”) si muove verso un modello più rigido, più punitivo, più simbolico che pragmatico. Una scelta che molti individui percepiscono come soffocante non tanto “in quanto uomini”, ma in quanto individui: perché trasforma l’intimità in un territorio di sospetto preventivo, perché rende il corpo un dispositivo morale, perché rischia di leggere la complessità delle relazioni attraverso la lente del pericolo anziché quella del desiderio.

4. La Francia: tutela forte, erotismo intatto

La Francia ha recepito la Convenzione di Istanbul in modo esplicito e completo, ma senza imitare modelli stranieri. La cultura francese concepisce il desiderio come uno spazio di libertà, di intelligenza relazionale, di ambiguità seduttiva. Qui la seduzione è vista come patrimonio culturale, come linguaggio sottile, come forma di espressione umana.

E infatti, quando nel pieno del #MeToo francese un gruppo di 100 intellettuali — tra cui Catherine Deneuve e Brigitte Lahaie, e non di rado citata anche Catherine Spaak in Italia — pubblicò la celebre lettera sul Monde, difesero quella che chiamarono:

👉 «la liberté d’importuner»,

la libertà di importunare come parte della civilisation de la séduction.

Nella semplificazione giornalistica italiana diventò la frase:

“Lasciate che gli uomini ci tocchino il sedere.”

Il senso non era l’invito alla molestia, ma la difesa di un principio culturale:

non tutto ciò che è imperfetto o maldestro nella seduzione è violenza.

Non tutto deve diventare reato, denuncia o scandalo.

La Francia, in altre parole, rifiuta l’idea che l’erotismo debba essere sterilizzato in nome del moralismo.

Il ministro della Giustizia Éric Dupond-Moretti è stato cristallino:

«Nous ne voulons pas d’une société où tout est contractuel, y compris le désir.»

(“Non vogliamo una società dove tutto è contrattualizzato, anche il desiderio.”)

In Francia, il consenso è definito in legge ma non è proceduralizzato. Il giudice valuta il contesto complessivo: la reciprocità evidente, il linguaggio corporeo, l’assenza di coercizione, il comportamento delle parti prima e dopo.

È un modello che protegge senza soffocare.

Tutela senza sospettare.

Legifera senza moralizzare.

E soprattutto non infantilizza nessuno.

5. Proteggere senza disumanizzare: la sfida comune

Il punto chiave è comprendere che regolare il consenso non significa — o non dovrebbe significare — invadere l’intimità delle persone.

Gli Stati Uniti privatizzano il desiderio in contratti impliciti.

L’Italia lo moralizza.

La Francia lo tutela senza snaturarlo.

La Francia mostra che è possibile applicare la Convenzione di Istanbul senza trasformare il sesso in un atto amministrativo e senza tradurre il corpo in simbolo morale.

È una strada più difficile, perché richiede maturità culturale, sensibilità sociale e rispetto della complessità umana.

6. Conclusione: la libertà come valore umano, non di genere

La vera questione non è chi venga “protetto” o “accusato”: la vera questione è quale idea di essere umano guida la legge.

Il modello statunitense vede l’essere umano come un potenziale imputato.

Il modello italiano come un potenziale colpevole morale.

Il modello francese come un adulto capace di desiderio e responsabilità.

Proteggere le vittime è indispensabile.

Ma farlo senza soffocare la libertà dell’individuo è la misura della maturità di una società.

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